31 GENNAIO / OFS ROMANO IN FESTA PER RICORDARE LA PROTRETTRICE DELL’ORDINE



BEATA
LUDOVICA ALBERTONI

31 GENNAIO A SAN FRANCESCO A RIPA

“Un sentito saluto di pace e bene a nome mio e della Fraternità di San Francesco a Ripa Grande”, con queste parole della Ministra Anna Maria Zelli ci è giunto l’invito a partecipare ai festeggiamenti in onore della Beata Ludovica Albertoni presso le spoglie della Beata conservate in quella chiesa francescana trasteverina e santuario che ricorda il passaggio di San Francesco a Roma.
Sarà possibile partecipare alla solenne concelebrazione eucaristica alle ore 18,30. In tale occasione in una chiesa mirabilmente addobbata a festa la Delegazione del Comune di Roma – c’informa l’invito: “rinnoverà l’antico omaggio di devozione ed il filiale affidamento dell’intera Città alla valida protezione della Beata”.
Al termine, come consueto, un momento di fraternità presso il convento dei frati.



Camminando sulle orme del Vangelo



1^ domenica dopo Natale
(Matteo 2,13-15 e 19–23)

   La domenica dopo Natale si celebra la festa della Sacra Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Sia il Vangelo di Matteo che le due letture del giorno presentano i due aspetti fondamentali che, insieme, costituiscono la famiglia: il rapporto moglie–marito (Col. 3, 12-21) e il rapporto genitori–figli (Sir.  3, 2-6 e 12-14).
Dei due rapporti il più importante è il primo, perché da esso dipende in gran parte il secondo, quello dei figli.
Di certo in una società fortemente e giustamente consapevole della parità dei sessi, sembra che le parole di S. Paolo siano inac-cettabili: “Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse…”
Bisogna tener presente la mentalità del suo tempo, ma, è anche vero che non è una soluzione sufficiente eliminare la parola “sottomissione”, semmai uniformarla a “reciprocità”.   Reciproco è l’amore tra moglie e marito, per cui la sottomissione non è che un aspetto e un’esigenza dell’amore. Chi ama e si sottomette all’altro, non si umilia, anzi si rende felice, in quanto tiene conto della volontà del coniuge, del suo parere e della sua sensibilità. In fondo essere “coniugi”, alla lettera, significa essere persone poste sotto “lo stesso giogo” liberamente accolto.
 L’amore esige comunione, scambio interpersonale; richiede che ci sia un “io” e un “tu”. Per questo il Dio cristiano è uno e trino. In Lui coesistono unità e distinzione: unità di natura, di voleri, di intenti e distinzione di caratteristiche e di persone. Proprio in questo la coppia umana è immagine di Dio e la famiglia umana è un riflesso della Trinità.
Gli sposi non sono più un “io” e un “tu”, essi diventano un “noi” simile ad una sola persona che non è singolare ma plurale, che insieme si pongono di fronte al mondo, cominciando dai figli. “Noi” pronunciò Maria a Gesù dopo averlo ritrovato nel tempio.
Tutto ciò, oggi, ci appare come un ideale, perché la realtà è spesso assai diversa, più complessa e a volte più tragica. Mai vergognarsi degli ideali in cambio di un semplice realismo.
I giovani hanno diritto a ricevere tutti quei valori trasmessi dagli ideali e non vivere nello scetticismo e nel cinismo. Sarebbe la fine di una società.
  
 2^ domenica dopo Natale
(Giovanni 1, 1-18)

Il Vangelo di questa domenica ci conduce verso un’affermazione centrale che è “il Verbo si fece carne”. L’evangelista Giovanni con diversi esempi ci dice che il Figlio di Dio, che esiste dall’eternità, che è Dio e Creatore, che è fonte della Vita e della Luce, è veramente uomo e non solo in apparenza.
Che significa la parola Verbo? Il termine originale usato dall’evangelista, Logos, può significare due cose: o Ragione, o Parola, o forse meglio tutte e due le cose insieme. Gesù Cristo viene chiamato così perché egli è la parola definitiva di Dio all’uomo, la pienezza e la totalità della rivelazione.
Di Dio ci viene detto che è unico, ma non solitario. Ha nel suo “seno” il Figlio, sua Parola vivente.
Del mondo, ci viene detto che “fu fatto per mezzo del Verbo”. E’ una visione che si giustifica quando afferma che Dio non è solitario, assolutamente contraria a quella atea e materialistica, dove il mondo è frutto del caso o di oscure leggi dell’evoluzione.
E’ significativo che il Vangelo di Giovanni cominci con la stessa espressione con cui inizia il racconto della creazione nel libro della Genesi: “In principio…”. Ma questa volta è un principio assoluto non relativo.
L’uomo, infine, ci appare come un essere creato da Dio libero. Può scegliere la luce e ricevere il potere di diventare Figlio di Dio, oppure rifiutare di credere e restare nelle tenebre. La luce, la vita si hanno dal Verbo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Ma l’affermazione più importante e sconvolgente del Prologo: “E il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”.
Il Figlio di Dio, la seconda Persona della Trinità, è sceso nel seno di una Vergine e si è fatto uomo come noi. Ma la frase di Giovanni ha sempre ricordato ai cristiani anche un’altra verità: che anche nella loro vita la parola si deve fare carne, cioè la fede si deve esprimere in opere, l’amore tradurre in gesti concreti di carità.  Il martire sant’Ignazio di Antiochia diceva: “E’ meglio essere cristiani senza dirlo, che dirlo senza esserlo”.
Non è professandoci cristiani, credenti che conoscono ben il Vangelo, che ci fa diretti figli di Dio. E’ l’azione. Solo chi si sforza di vivere secondo coscienza e fa del bene al prossimo può ritenersi in una situazione migliore davanti a Dio.


TEMPO ORDINARIO

  
3^ domenica: Battesimo di Gesù
(Matteo 3, 13-17)

Nel Battesimo del Signore la voce del Padre riconosce in Gesù il Figlio prediletto, il Messia inviato ai poveri. Lo spirito che sta sopra di Lui lo consacra sacerdote, profeta e re.
Siamo così introdotti nel mistero di Gesù, vero uomo che porta su di sé i peccati del mondo, vero Dio che ci dona lo Spirito di Dio.
Gesù usa per se stesso le parole di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me: Mi ha consacrato con l’unzione…”. Anche Pietro usa il termine unzione, parlando di Gesù: “ Dio ha unto di Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth”.
Si tratta di un concetto fondamentale per la fede cristiana. Il nome Messia in ebraico e Christos in greco significano proprio questo: Unto. Noi stessi, dicevano i Padri antichi, ci chiamiamo cristiani perché siamo unti a imitazione di Cristo, l’Unto per eccellenza. In Israele il rito aveva un significato religioso. Si ungevano i re, i sacerdoti e i profeti con un unguento profumato e questo era il segno che erano consacrati al servizio divino.
In Cristo tutte queste unzioni simboliche diventano realtà. Nel battesimo del Giordano egli viene consacrato da Dio Padre re, profeta e sacerdote eterno. Non con l’uso di un olio fisico, ma mediante l’olio spirituale che è lo Spirito del Signore, “l’olio di letizia” come lo chiama un salmo. Questo spiega perché la Chiesa dà tanto rilievo all’unzione con il sacro crisma.
C’è un rito di unzione nel battesimo, nella cresima, nella consacrazione dei sacerdoti e c’è un’unzione degli infermi.
E’ perché attraverso questi riti si partecipa all’unzione di Cristo, cioè alla sua pienezza di Spirito Santo. Si diventa letteralmente “cristiani”, cioè unti, consacrati, chiamati “a diffondere nel mondo il buon odore di Cristo” (2 Corinzi 2, 15).

Il tempo ordinario, iniziato dopo la festa del Battesimo del Signore, terminerà il martedì che precede la Quaresima.

Ogni domenica del periodo “ordinario” riporta nel suo insieme il mistero della redenzione, con una sottolineatura maggiore o minore dell’uno o dell’altro aspetto,  senza che  un tema prevalga sull’altro. Infatti in queste domeniche sono toccati diversi impegni della condotta cristiana: la carità, la giustizia, la purezza del cuore, la preghiera, l’abbandono a Dio, la speranza, la fedeltà al Vangelo, in un intreccio che delinea appunto lo stile di vita del discepolo di Gesù.

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  II DOM. T.O.
Gesù è chiamato “l’agnello di Dio”, “Colui che toglie il peccato nel mondo”: già si profila in queste parole di Giovanni l’immolazione del Signore, nuovo e vero Agnello pasquale, che nel  suo sangue laverà le nostre colpe.
L’agnello nella Bibbia, come del resto in altre culture, è il simbolo della creatura innocente, che non può fare del male ad alcuno, ma solo riceverlo. Gesù è, per eccellenza, l’Innocente che soffre. Ma Lui non è venuto a darci delle dotte spiegazioni sul dolore, ma è venuto a prenderlo silenziosamente su di sé. Così facendo, però, lo ha cambiato dall’interno: da segno di maledizione, ne ha fatto uno strumento di redenzione. Di più: ne ha fatto il valore supremo, l’ordine di grandezza più alto in questo mondo. Gesù non ha dato solo un senso al dolore innocente, gli ha conferito anche un potere nuovo, una misteriosa fecondità, che è speranza per tutto il genere umano.

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  III DOM.  T.O.
Con l’andata e il soggiorno di Gesù in Galilea vi entra la vera luce, la redenzione, la gioia. Là inizia la raccolta dei primi discepoli: pescatori che da quel mare verranno inviati nel mondo intero, ma ormai come pescatori di uomini.
Non solo Gesù guarisce, ma ordina ai suoi discepoli di fare lo stesso dopo di Lui: “Li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi” (Luca 9,2); “Predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi” (Matteo 10,7).
Sempre troviamo le due cose abbinate: predicare il Vangelo e curare gli infermi.
L’uomo ha due mezzi per cercare di superare le sue infermità: la natura e la grazia. Natura indica l’intelligenza, la scienza, la medicina, la tecnica; grazia indica il ricorso diretto a Dio, attraverso la fede, la preghiera e i sacramenti.
E quando la malattia, la sofferenza non passa, cosa dobbiamo pensare? Che questa persona non ha fede o che Dio non la ama?
La potenza di Dio non si manifesta solo guarendo fisicamente o eliminando il male, ma dando la capacità, e talvolta persino la gioia, di portare la propria sofferenza con Cristo e di completare ciò che manca ai suoi patimenti. Cristo ha redento anche la sofferenza e la morte. Essa non è più segno di peccato, partecipazione alla colpa di Adamo, ma è strumento di redenzione.

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  IV DOM.  T.O.

Gesù con le beatitudini fa un discorso che sta esattamente all’opposto del discorso mondano.
Gli uomini abitualmente proclamano beati i ricchi. Gesù esalta la povertà, e con essa la mitezza, la
misericordia,la purezza, lo stato di prova e di persecuzione a motivo del Vangelo. Infatti Gesù ha detto: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”.
Ma cos’è  questo benedetto “regno dei cieli” che ha
operato il vero capovolgimento di tutti i valori?.
E’ la ricchezza che non passa. E’ la ricchezza che non si deve lasciare ad altri con la morte, ma che si porta con sé. E’ il “tesoro nascosto” per il quale vale la pena, dice il vangelo, dare via tutto. Il regno di Dio è Dio stesso. Quando parliamo di cambiamenti, crediamo sempre che quelli che contano siano quelli visibili e sociali, non quelli che avvengono nella fede.
Gli eventi della storia che abbiamo conosciuto, ci hanno facilmente dimostrato come quel desiderio di cambiamento materiale, legato ai vecchi valori del mondo – denaro, potere, prestigio -, finisce di produrre, lasciandoci quella sensazione di ingiustizia che pensavamo di voler eliminare. Il Vangelo, e in particolare la nostra beatitudine di poveri, ci permette di cogliere quello che c’è sotto, o al di là, della facciata. Permette di distinguere quello che resta da quello che passa.

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   V DOMENICA T.O.

I discepoli di Gesù sono uomini come tutti gli altri: vivono e operano in mezzo al mondo; eppure qualcosa li distingue dagli altri: la fede e la loro carità li rende come sale e come luce. Un cristiano sa dare sapore alla vita e illuminarla della sua giusta luce.
Voi siete la luce del mondo…Risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone” (Matteo 5, 13-16). Essere luce e risplendere non significa certo brillare per intelligenza, cultura, ricchezza, popolarità. La luce di cui parla Gesù è quella che emana dalle azioni e parla con la vita.
Spesso noi poniamo dei doppi vetri tra noi e i poveri, quasi a giustificare la nostra indifferenza. Infatti noi vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali, delle riviste missionarie, ma il loro grido è lontano, molto lontano. Siamo al riparo da essi.
Come poterli aiutare, se siamo lontano?  Prima cosa dobbiamo rompere questi doppi vetri, superare l’indifferenza, l’insensibilità e lasciarci invadere da una sana inquietudine a causa della miseria spaventosa che c’è nel mondo. In pratica tutti, credenti e non credenti, dobbiamo amare e soccorrere i poveri.  Per noi cristiani si aggiunge un altro obbligo: evangelizzare i poveri, cioè portare loro la “buona novella”, che Dio è con loro.

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  VI DOMENICA T.O.

Non basta osservare la legge di Dio esteriormente: bisogna aderirvi dall’intimo del cuore e sorvegliare anche i sentimenti più segreti. Così nei rapporti con il prossimo, cos’ nella vita coniugale. Si può uccidere il fratello con l’odio coltivato nell’intimo, così come si può essere adulteri con il desiderio.
“Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.
Questa parola ci ripropone lo spinoso problema del divorzio. Ma io non intendo ridurre il problema del divorzio al solo aspetto giuridico e legale.  Nel presente brano Gesù è intento a riportare questo problema alla radice che è il cuore. Parlando dell’adulterio dice: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: “chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”.
Si parla tanto dei problemi sociali causati dal divorzio giuridico: donne che vivono in solitudini, figli compromessi psicologica-mente dalla crudele necessità di dover scegliere con quale genitore vivere o sentirsi conteso tra di essi.
Ma i danni di quest’altro divorzio sono forse molto minori per chi ci vive dentro, per la società e per figli? Ci sono tanti adolescenti traviati, drogati, violenti, che vivono in famiglie dove si litiga continuamente, ci si offende rendendo la vita di tutti un vero e proprio inferno. Ci sembra giustificabile, anzi augurabile un divorzio istituzionale. Ci sembra l’unica soluzione.
Ma Gesù diceva: “L’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto”. Questo significa che la legge umana no deve separare ciò che Dio ha unito, ma soprattutto che l’uomo non separi da sé sua moglie e lei non separi da sé suo marito. Non permettere al maligno di dividere ciò che Dio ha congiunto”.

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 VII  DOMENICA T.O. 

  E’ esigente il Vangelo in fatto di amore per il prossimo. Persino i nemici vanno amati e questo amore è il segno che distingue i discepoli del Signore.
Si tratta di imitare il Padre celeste, che dimostra la sua benevolenza verso i giusti e verso gli ingiusti.
“… se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. Con queste parole Gesù cancella la vecchia legge del taglione. “…amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. E’ umanamente possibile fare questo?
Gesù non ci dà solo il comandamento di amare i nemici, ma ci dà anche la grazia, cioè la capacità di farlo. Se egli si fosse limitato a darci solo il “precetto” di amare i nemici, non riusciremmo a darci soddisfazione. Gesù è morto perdonando i nemici. Ma anche questo non sarebbe stato sufficiente. Se si fosse fermato qui, Gesù ci avrebbe lasciato un sublime esempio d’amore per i nemici, ma non ancora la forza e la capacità di amare, anche noi, i nemici.
Le cose cambiano quando egli, a Pentecoste e poi nel battesimo, ci dona il suo Spirito. Cosa significa il fatto che ci dà il suo Spirito?  Significa che ci comunica le sue stesse disposizioni, infonde in noi, con la carità la sua stessa capacità di amare tutti, anche i nemici.
E’ Gesù che opera con noi e in noi.
Ciò che conta è la volontà di perdonare e non l’istinto di farlo. Certo è che se mettessimo in pratica l’insegnamento di Gesù, non ci sarebbe nessun bisogno di porgere l’altra guancia, per il semplice motivo che  nessuno percuoterebbe più il fratello su una guancia.

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 VIII DOMENICA -  

 “Mammona”: è il denaro, che Gesù paragona ad un padrone, per dire che non può essere servito da chi intende servire Dio. Il denaro è facile che leghi il cuore, che rappresenti l’unica  preoccupazione. Cristo mette in guardia dall’affanno opprimente per il domani.
“Guardate gli uccelli del cielo…osservate come crescono i gigli del campo…Non affannatevi dicendo: Cosa mangeremo? Cosa indosseremo? Il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno”..
Bisogna notare innanzitutto una cosa. Il brano del Vangelo ci esorta a non preoccuparci del nostro vestito, del nostro cibo, non però del cibo e del vestito del nostro fratello. A questo proposito il Vangelo ci vuole, al contrario, pieni di sollecitudine. Chi ha pronunciato quelle parole sugli uccelli e sui gigli, ha anche pronunciato queste parole: “Ero affamato e non mi avete dato da mangiare, ero nudo e non mi avete vestito” (Matteo 25).
Bisogna dunque preoccuparsi del cibo e del vestito? L’errore nasce nel voler separare una parabola da un’altra, anziché collocarle nell’insieme. Basterebbe ricordare la parabola dei talenti, per rendersi conto che Gesù non intendeva che l’uomo dovesse aspettare la provvidenza senza neanche doverla chiedere.
Non si tratta di ignorare i bisogni vitali dell’esistenza, cibo e vestito, ma di decidere se il cibo e il vestito, e tutti i bisogni del corpo, saranno la preoccupazione principale e unica nella vita o se ci sarà posto per un’altra ricerca più importante.
Si tratta di sapere, insomma, se l’uomo si accontenterà di essere uomo, o vorrà essere lui Dio, sufficiente a se stesso.
Personalmente dovremmo far nostra la massima che chiude il Vangelo odierno: “Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena”. Nelle nostre ansie quotidiane per il cibo, il vestito, la casa…attacchiamoci alla certezza trasmessaci oggi da Cristo: “Il Padre celeste sa di che cosa ho bisogno”.