Camminando sulle orme del Vangelo
1^ domenica dopo
Natale
(Matteo 2,13-15 e 19–23)
La domenica dopo Natale si celebra la festa della Sacra Famiglia di Gesù,
Maria e Giuseppe.
Sia il Vangelo di
Matteo che le due letture del giorno presentano i due aspetti fondamentali che,
insieme, costituiscono la famiglia: il rapporto moglie–marito (Col. 3, 12-21) e
il rapporto genitori–figli (Sir. 3, 2-6
e 12-14).
Dei due rapporti
il più importante è il primo, perché da esso dipende in gran parte il secondo,
quello dei figli.
Di certo in una
società fortemente e giustamente consapevole della parità dei sessi, sembra che
le parole di S. Paolo siano inac-cettabili: “Voi,
mogli, state sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti,
amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse…”
Bisogna tener
presente la mentalità del suo tempo, ma, è anche vero che non è una soluzione
sufficiente eliminare la parola “sottomissione”, semmai uniformarla a
“reciprocità”. Reciproco è l’amore tra
moglie e marito, per cui la sottomissione non è che un aspetto e un’esigenza
dell’amore. Chi ama e si sottomette all’altro, non si umilia, anzi si rende
felice, in quanto tiene conto della volontà del coniuge, del suo parere e della
sua sensibilità. In fondo essere “coniugi”, alla lettera, significa essere
persone poste sotto “lo stesso giogo” liberamente accolto.
L’amore esige comunione, scambio
interpersonale; richiede che ci sia un “io” e un “tu”. Per questo il Dio
cristiano è uno e trino. In Lui coesistono unità e distinzione: unità di
natura, di voleri, di intenti e distinzione di caratteristiche e di persone.
Proprio in questo la coppia umana è immagine di Dio e la famiglia umana è un
riflesso della Trinità.
Gli sposi non
sono più un “io” e un “tu”, essi diventano un “noi” simile ad una sola persona
che non è singolare ma plurale, che insieme si pongono di fronte al mondo,
cominciando dai figli. “Noi” pronunciò Maria a Gesù dopo averlo ritrovato nel
tempio.
Tutto ciò, oggi,
ci appare come un ideale, perché la realtà è spesso assai diversa, più complessa
e a volte più tragica. Mai vergognarsi degli ideali in cambio di un semplice
realismo.
I giovani hanno
diritto a ricevere tutti quei valori trasmessi dagli ideali e non vivere nello
scetticismo e nel cinismo. Sarebbe la fine di una società.
2^
domenica dopo Natale
(Giovanni 1, 1-18)
Il Vangelo di
questa domenica ci conduce verso un’affermazione centrale che è “il Verbo si fece carne”. L’evangelista
Giovanni con diversi esempi ci dice che il Figlio di Dio, che esiste
dall’eternità, che è Dio e Creatore, che è fonte della Vita e della Luce, è
veramente uomo e non solo in apparenza.
Che significa la
parola Verbo? Il termine originale usato dall’evangelista, Logos, può
significare due cose: o Ragione, o Parola, o forse meglio tutte e due le cose
insieme. Gesù Cristo viene chiamato così perché egli è la parola definitiva di
Dio all’uomo, la pienezza e la totalità della rivelazione.
Di Dio ci viene
detto che è unico, ma non solitario. Ha nel suo “seno” il Figlio, sua Parola
vivente.
Del mondo, ci
viene detto che “fu fatto per mezzo del Verbo”. E’ una visione che si
giustifica quando afferma che Dio non è solitario, assolutamente contraria a quella
atea e materialistica, dove il mondo è frutto del caso o di oscure leggi
dell’evoluzione.
E’ significativo
che il Vangelo di Giovanni cominci con la stessa espressione con cui inizia il
racconto della creazione nel libro della Genesi: “In principio…”. Ma questa
volta è un principio assoluto non relativo.
L’uomo, infine,
ci appare come un essere creato da Dio libero. Può scegliere la luce e ricevere
il potere di diventare Figlio di Dio, oppure rifiutare di credere e restare
nelle tenebre. La luce, la vita si hanno dal Verbo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Ma
l’affermazione più importante e sconvolgente del Prologo: “E il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”.
Il Figlio di Dio,
la seconda Persona della Trinità, è sceso nel seno di una Vergine e si è fatto
uomo come noi. Ma la frase di Giovanni ha sempre ricordato ai cristiani anche
un’altra verità: che anche nella loro vita la parola si deve fare carne, cioè
la fede si deve esprimere in opere, l’amore tradurre in gesti concreti di
carità. Il martire sant’Ignazio di
Antiochia diceva: “E’ meglio essere
cristiani senza dirlo, che dirlo senza esserlo”.
Non è
professandoci cristiani, credenti che conoscono ben il Vangelo, che ci fa
diretti figli di Dio. E’ l’azione. Solo chi si sforza di vivere secondo
coscienza e fa del bene al prossimo può ritenersi in una situazione migliore
davanti a Dio.
TEMPO ORDINARIO
3^
domenica: Battesimo di Gesù
(Matteo 3, 13-17)
Nel Battesimo del
Signore la voce del Padre riconosce in Gesù il Figlio prediletto, il Messia
inviato ai poveri. Lo spirito che sta sopra di Lui lo consacra sacerdote,
profeta e re.
Siamo così
introdotti nel mistero di Gesù, vero uomo che porta su di sé i peccati del
mondo, vero Dio che ci dona lo Spirito di Dio.
Gesù usa per se
stesso le parole di Isaia: “Lo Spirito
del Signore è sopra di me: Mi ha consacrato con l’unzione…”. Anche Pietro usa
il termine unzione, parlando di Gesù: “ Dio ha unto di Spirito Santo e potenza
Gesù di Nazareth”.
Si tratta di un
concetto fondamentale per la fede cristiana. Il nome Messia in ebraico e
Christos in greco significano proprio questo: Unto. Noi stessi, dicevano i
Padri antichi, ci chiamiamo cristiani perché siamo unti a imitazione di Cristo,
l’Unto per eccellenza. In Israele il rito aveva un significato religioso. Si
ungevano i re, i sacerdoti e i profeti con un unguento profumato e questo era
il segno che erano consacrati al servizio divino.
In Cristo tutte
queste unzioni simboliche diventano realtà. Nel battesimo del Giordano egli
viene consacrato da Dio Padre re, profeta e sacerdote eterno. Non con l’uso di
un olio fisico, ma mediante l’olio spirituale che è lo Spirito del Signore, “l’olio
di letizia” come lo chiama un salmo. Questo spiega perché la Chiesa dà tanto
rilievo all’unzione con il sacro crisma.
C’è un rito di
unzione nel battesimo, nella cresima, nella consacrazione dei sacerdoti e c’è
un’unzione degli infermi.
E’ perché
attraverso questi riti si partecipa all’unzione di Cristo, cioè alla sua
pienezza di Spirito Santo. Si diventa letteralmente “cristiani”, cioè unti,
consacrati, chiamati “a diffondere nel mondo il buon odore di Cristo” (2
Corinzi 2, 15).
Il
tempo ordinario, iniziato dopo la festa
del Battesimo del Signore, terminerà il martedì che precede la Quaresima.
Ogni domenica del
periodo “ordinario” riporta nel suo insieme il mistero della redenzione, con
una sottolineatura maggiore o minore dell’uno o dell’altro aspetto, senza che
un tema prevalga sull’altro. Infatti in queste domeniche sono toccati
diversi impegni della condotta cristiana: la carità, la giustizia, la purezza
del cuore, la preghiera, l’abbandono a Dio, la speranza, la fedeltà al Vangelo,
in un intreccio che delinea appunto lo stile di vita del discepolo di Gesù.
II DOM. T.O.
Gesù è
chiamato “l’agnello di Dio”, “Colui che toglie il peccato nel mondo”: già si
profila in queste parole di Giovanni l’immolazione del Signore, nuovo e vero
Agnello pasquale, che nel suo sangue
laverà le nostre colpe.
L’agnello nella
Bibbia, come del resto in altre culture, è il simbolo della creatura innocente,
che non può fare del male ad alcuno, ma solo riceverlo. Gesù è, per eccellenza,
l’Innocente che soffre. Ma Lui non è venuto a darci delle dotte spiegazioni sul
dolore, ma è venuto a prenderlo silenziosamente su di sé. Così facendo, però,
lo ha cambiato dall’interno: da segno di maledizione, ne ha fatto uno strumento
di redenzione. Di più: ne ha fatto il valore supremo, l’ordine di grandezza più
alto in questo mondo. Gesù non ha dato solo un senso al dolore innocente, gli
ha conferito anche un potere nuovo, una misteriosa fecondità, che è speranza
per tutto il genere umano.
III DOM. T.O.
Con l’andata e il soggiorno di
Gesù in Galilea vi entra la vera luce, la redenzione, la gioia. Là inizia la
raccolta dei primi discepoli: pescatori che da quel mare verranno inviati nel
mondo intero, ma ormai come pescatori di uomini.
Non solo Gesù
guarisce, ma ordina ai suoi discepoli di fare lo stesso dopo di Lui: “Li mandò ad annunciare il regno di Dio e a
guarire gli infermi” (Luca 9,2); “Predicate che il regno dei cieli è vicino.
Guarite gli infermi” (Matteo 10,7).
Sempre troviamo
le due cose abbinate: predicare il Vangelo e curare gli infermi.
L’uomo ha due
mezzi per cercare di superare le sue infermità: la natura e la grazia. Natura
indica l’intelligenza, la scienza, la medicina, la tecnica; grazia indica il
ricorso diretto a Dio, attraverso la fede, la preghiera e i sacramenti.
E quando la
malattia, la sofferenza non passa, cosa dobbiamo pensare? Che questa persona
non ha fede o che Dio non la ama?
La potenza di Dio
non si manifesta solo guarendo fisicamente o eliminando il male, ma dando la
capacità, e talvolta persino la gioia, di portare la propria sofferenza con
Cristo e di completare ciò che manca ai suoi patimenti. Cristo ha redento anche
la sofferenza e la morte. Essa non è più segno di peccato, partecipazione alla
colpa di Adamo, ma è strumento di redenzione.
IV DOM. T.O.
Gesù con le beatitudini fa un
discorso che sta esattamente all’opposto del discorso mondano.
Gli uomini
abitualmente proclamano beati i ricchi. Gesù esalta la povertà, e con essa la
mitezza, la
misericordia,la
purezza, lo stato di prova e di persecuzione a motivo del Vangelo. Infatti Gesù
ha detto: “Beati i poveri in spirito, perché
di essi è il regno dei cieli”.
Ma cos’è questo benedetto “regno dei cieli” che ha
operato il vero
capovolgimento di tutti i valori?.
E’ la ricchezza
che non passa. E’ la ricchezza che non si deve lasciare ad altri con la morte,
ma che si porta con sé. E’ il “tesoro nascosto” per il quale vale la pena, dice
il vangelo, dare via tutto. Il regno di Dio è Dio stesso. Quando parliamo di
cambiamenti, crediamo sempre che quelli che contano siano quelli visibili e
sociali, non quelli che avvengono nella fede.
Gli eventi della
storia che abbiamo conosciuto, ci hanno facilmente dimostrato come quel
desiderio di cambiamento materiale, legato ai vecchi valori del mondo – denaro,
potere, prestigio -, finisce di produrre, lasciandoci quella sensazione di
ingiustizia che pensavamo di voler eliminare. Il Vangelo, e in particolare la
nostra beatitudine di poveri, ci permette di cogliere quello che c’è sotto, o
al di là, della facciata. Permette di distinguere quello che resta da quello
che passa.
V DOMENICA T.O.
I discepoli di Gesù sono uomini
come tutti gli altri: vivono e operano in mezzo al mondo; eppure qualcosa li
distingue dagli altri: la fede e la loro carità li rende come sale e come luce.
Un cristiano sa dare sapore alla vita e illuminarla della sua giusta luce.
“Voi siete la luce del mondo…Risplenda la
vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone” (Matteo 5,
13-16). Essere luce e risplendere non significa certo brillare per
intelligenza, cultura, ricchezza, popolarità. La luce di cui parla Gesù è
quella che emana dalle azioni e parla con la vita.
Spesso noi
poniamo dei doppi vetri tra noi e i poveri, quasi a giustificare la nostra
indifferenza. Infatti noi vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo
schermo televisivo, sulle pagine dei giornali, delle riviste missionarie, ma il
loro grido è lontano, molto lontano. Siamo al riparo da essi.
Come poterli
aiutare, se siamo lontano? Prima cosa
dobbiamo rompere questi doppi vetri, superare l’indifferenza, l’insensibilità
e lasciarci invadere da una sana inquietudine a causa della miseria spaventosa
che c’è nel mondo. In pratica tutti, credenti e non credenti, dobbiamo amare e
soccorrere i poveri. Per noi cristiani
si aggiunge un altro obbligo: evangelizzare i poveri, cioè portare loro la
“buona novella”, che Dio è con loro.
VI DOMENICA T.O.
Non basta osservare la legge di
Dio esteriormente: bisogna aderirvi dall’intimo del cuore e sorvegliare anche i
sentimenti più segreti. Così nei rapporti con il prossimo, cos’ nella vita
coniugale. Si può uccidere il fratello con l’odio coltivato nell’intimo, così
come si può essere adulteri con il desiderio.
“Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di
ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di
concubinato la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette
adulterio”.
Questa parola ci
ripropone lo spinoso problema del divorzio. Ma io non intendo ridurre il
problema del divorzio al solo aspetto giuridico e legale. Nel presente brano Gesù è intento a riportare
questo problema alla radice che è il cuore. Parlando dell’adulterio dice: “Avete inteso che fu detto: Non commettere
adulterio; ma io vi dico: “chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore”.
Si parla tanto
dei problemi sociali causati dal divorzio giuridico: donne che vivono in
solitudini, figli compromessi psicologica-mente dalla crudele necessità di
dover scegliere con quale genitore vivere o sentirsi conteso tra di essi.
Ma i danni di
quest’altro divorzio sono forse molto minori per chi ci vive dentro, per la
società e per figli? Ci sono tanti adolescenti traviati, drogati, violenti, che
vivono in famiglie dove si litiga continuamente, ci si offende rendendo la vita
di tutti un vero e proprio inferno. Ci sembra giustificabile, anzi augurabile
un divorzio istituzionale. Ci sembra l’unica soluzione.
Ma Gesù diceva: “L’uomo non separi ciò che Dio ha
congiunto”. Questo significa che la legge umana no deve separare ciò che Dio ha
unito, ma soprattutto che l’uomo non separi da sé sua moglie e lei non separi
da sé suo marito. Non permettere al maligno di dividere ciò che Dio ha
congiunto”.
VII DOMENICA T.O.
E’ esigente il Vangelo in fatto di amore per il
prossimo. Persino i nemici vanno amati e questo amore è il segno che distingue
i discepoli del Signore.
Si tratta di
imitare il Padre celeste, che dimostra la sua benevolenza verso i giusti e
verso gli ingiusti.
“… se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli
anche l’altra”. Con queste parole Gesù cancella la vecchia legge
del taglione. “…amate i vostri nemici e
pregate per i vostri persecutori”. E’ umanamente possibile fare questo?
Gesù non ci dà
solo il comandamento di amare i nemici, ma ci dà anche la grazia, cioè la
capacità di farlo. Se egli si fosse limitato a darci solo il “precetto” di
amare i nemici, non riusciremmo a darci soddisfazione. Gesù è morto perdonando
i nemici. Ma anche questo non sarebbe stato sufficiente. Se si fosse fermato
qui, Gesù ci avrebbe lasciato un sublime esempio d’amore per i nemici, ma non
ancora la forza e la capacità di amare, anche noi, i nemici.
Le cose cambiano
quando egli, a Pentecoste e poi nel battesimo, ci dona il suo Spirito. Cosa significa
il fatto che ci dà il suo Spirito? Significa
che ci comunica le sue stesse disposizioni, infonde in noi, con la carità la
sua stessa capacità di amare tutti, anche i nemici.
E’ Gesù che opera
con noi e in noi.
Ciò che conta è
la volontà di perdonare e non l’istinto di farlo. Certo è che se mettessimo in
pratica l’insegnamento di Gesù, non ci sarebbe nessun bisogno di porgere
l’altra guancia, per il semplice motivo che
nessuno percuoterebbe più il fratello su una guancia.
VIII DOMENICA -
“Mammona”:
è il denaro, che Gesù paragona ad un padrone, per dire che non può essere
servito da chi intende servire Dio. Il denaro è facile che leghi il cuore, che
rappresenti l’unica preoccupazione.
Cristo mette in guardia dall’affanno opprimente per il domani.
“Guardate gli uccelli del cielo…osservate come
crescono i gigli del campo…Non affannatevi dicendo: Cosa mangeremo? Cosa
indosseremo? Il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno”..
Bisogna notare
innanzitutto una cosa. Il brano del Vangelo ci esorta a non preoccuparci del
nostro vestito, del nostro cibo, non però del cibo e del vestito del nostro
fratello. A questo proposito il Vangelo ci vuole, al contrario, pieni di
sollecitudine. Chi ha pronunciato quelle parole sugli uccelli e sui gigli, ha
anche pronunciato queste parole: “Ero
affamato e non mi avete dato da mangiare, ero nudo e non mi avete vestito”
(Matteo 25).
Bisogna dunque
preoccuparsi del cibo e del vestito? L’errore nasce nel voler separare una
parabola da un’altra, anziché collocarle nell’insieme. Basterebbe ricordare la
parabola dei talenti, per rendersi conto che Gesù non intendeva che l’uomo
dovesse aspettare la provvidenza senza neanche doverla chiedere.
Non si tratta di
ignorare i bisogni vitali dell’esistenza, cibo e vestito, ma di decidere se il
cibo e il vestito, e tutti i bisogni del corpo, saranno la preoccupazione
principale e unica nella vita o se ci sarà posto per un’altra ricerca più
importante.
Si tratta di
sapere, insomma, se l’uomo si accontenterà di essere uomo, o vorrà essere lui
Dio, sufficiente a se stesso.
Personalmente
dovremmo far nostra la massima che chiude il Vangelo odierno: “Non affannatevi dunque per il domani,
perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua
pena”. Nelle nostre ansie quotidiane per il cibo, il vestito, la
casa…attacchiamoci alla certezza trasmessaci oggi da Cristo: “Il Padre celeste sa di che cosa ho
bisogno”.