Domenica delle
Palme
(Lc.22,
14-23, 56)
esù
giunge con intenso desiderio alla sua ultima Pasqua, che consuma in se stesso,
al posto di quella antica definitivamente caduta. Sono i giorni, questi, che stanno al vertice
della sua esistenza e danno senso a tutto il disegno di salvezza. La Chiesa
rilegge gli eventi che, compiuti una volta, pure conservano ancora tutto il
loro valore e la loro attuale efficacia.
Nel Vangelo ascoltiamo per intero il racconto della passione secondo san Luca.
Ci poniamo la questione cruciale, quella per rispondere alla quale furono
scritti i Vangeli: perché un uomo così è
finito sulla croce?
Quale
il motivo, e chi sono i responsabili, della sua morte?
Secondo una teoria che ha cominciato a circolare in seguito
alla tragedia della Shoa degli ebrei, la responsabilità della morte di Cristo
ricade principalmente, anzi forse esclusivamente, su Pilato e l’autorità
romana, il che indica che la sua motivazione è più di ordine politico che
religioso. I Vangeli hanno scagionato Pilato e accusato di essa i capi
dell’ebraismo per tranquillizzare le autorità romane sul loro conto e farsele
amiche.
Questa tesi è nata da una preoccupazione giusta che tutti
oggi condividiamo: togliere alla radice ogni pretesto all’antisemitismo che
tanto male ha procurato al popolo ebraico da parte dei cristiani. Ma il torto
che si può fare a una causa giusta è quello di difenderla con argomenti
sbagliati. La lotta all’antisemitismo va posta su un fondamento più solido che
una discutibile interpretazione dei racconti della Passione.
L’estraneità
del popolo ebraico alla responsabilità della morte di Cristo è confermata da
una certezza biblica che i cristiani hanno in comune con gli ebrei, ma che
purtroppo per tanti secoli è stata stranamente dimenticata: “Colui che ha peccato deve morire. Il figlio
non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio” (Ezechiele
18, 20).
La
dottrina della Chiesa conosce un solo peccato che si trasmette per eredità da
padre in figlio, il peccato originale, nessun altro. Gesù è il più grande dono
che il popolo ebraico ha fatto all’umanità e non deve mai più diventare motivo
di condanna per esso.
- Perché
un uomo così è finito sulla croce?
- Quale
il motivo, e chi sono i responsabili,
della
sua morte? Gli ebrei? oppure …
Chiarito il rifiuto dell’antisemitismo, vorrei tentare di
spiegare perché non si può accettare la tesi della totale estraneità delle
autorità ebraiche alla morte di Cristo e quindi della natura essenzialmente
politica di essa. Paolo, nella più
antica delle sue lettere, scritta
intorno all’ano 50, dà della condanna di
Cristo, la stessa fondamentale versione dei Vangeli: dice che i “giudei hanno messo a morte Gesù” (1
Tessalonicesi 2, 15). Ed egli sui fatti accaduti a Gerusalemme poco tempo
prima del suo arrivo in città egli doveva essere informato meglio di noi
moderni, avendo, un tempo (in quanto romano) approvato e difeso la condanna del
Nazareno,
Pilato non era una persona sensibile a ragioni di giustizia,
tale da preoccuparsi della sorte di un ignoto giudeo; era un tipo duro e
crudele, pronto a stroncare nel sangue ogni minimo indizio di rivolta. Tutto
ciò è storia, quindi verissimo. Egli però non tenta di salvare Gesù per
compassione verso la vittima, ma solo per un puntiglio contro i suoi
accusatori, con i quali era in atto una guerra sorda fin dal suo arrivo in
Giudea. Naturalmente, questo non diminuisce affatto la responsabilità di Pilato
nella condanna di Cristo, che ricade su di lui, non meno che sui capi ebrei.
La
conclusione che possiamo tirare dalle considerazioni storiche fatte è dunque
che potere religioso e potere politico, i capi del sinedrio e il procuratore
romano parteciparono entrambi, per motivi diversi, alla condanna di Cristo. La
storia né dice tutto e neppure l’essenziale su questo punto. Per la fede, a
mettere a morte Gesù siamo stati tutti noi con i nostri peccati.
Adelaide Rossi, ofs