6 AGOSTO ore 17 S. MESSA NELLA CASA NATALE DELLA SdD GIUSEPPINA BERETTONI

"SANCTA SANTIS" 

6 AGOSTO 2013 - S. MESSA NELLA CASA NATALE
DELLA SERVA DI DIO GIUSEPPINA BERETTONI 


studentato CASA DI ZACCHEO
via dei IV Cantoni, 36 - ore 17

La nostra più che centenaria Fraternità è stata ospite di tantri illustri terziari e Assistenti spirituali e veri  propri Apostoli santi che ancora oggi sono ricordati nella Chiesa, quali P. Ignazio Beschin, P. Agostino Gemelli, Argene Fati,  Armida Barelli e i coniugi Beltrame Quattrocchi, la piccola Antonietta Meo conosciuita come “Nennolina”, Padre Chiettini e Giuseppina Berettoni, solo per citarne alcuni.
Numerosi anche i terziari e le terziarie che hanno vissuto defilati e in grande umiltà la loro vita senza trovare chi dopo la loro morte ne promuovesse adeguatamente il ricordo quale testimoni di una vita pienamente vissuta in Cristo nostro Signore. Dopo il Giudizio Universale, riuniti nella comunione dei santi, a tutti riserverà grandi sorprese!


Questo oblio, secondo me, non ha tanto a che fare con la santità di questi uomini e donne, ma con il senso del “tempo” quale oggi noi lo percepiamo, che non contempla alcun senso di trascendenza.
Quando molte volte ho proposto incontri su un antico beato quale Raimondo Lullo, come sul terziario del '900 quale Arnaldo Canepa, colui che fondò gli Oratori a Roma (COR) nel dopoguerra  etc … avvolte però sembra come stare a fare dell’ “archeologia” !
Invece, essi stanno accanto a noi, come esempio di vita nel quotidiano della nostra esistenza di francescani secolari e ci aiutano a capire la nostra “identità” (forse per questo non li consideriamo: non più sappiamo chi siamo? Non sentiamo alcun senso d'apparteneza? ).  Questi uomini e donne che ci hanno preceduto e vissuto tante ore tra le stesse nura tra le quali viviano noi oggi gli incontri di Fraterntà sono in preghiera per noi. Nelle mie preghiere ricordo papà che mi ha lasciato troppo presto e la nonna, che è stata maestra mia nella fede, ma quante volte percepisco che anche loro pregano per me? (ms)

  LA COMUNIONE DEI SANTI

Dopo aver confessato «la santa Chiesa cattolica», il Simbolo degli Apostoli aggiunge «la comunione dei santi». Questo articolo è, per certi aspetti, una esplicitazione del precedente: «Che cosa è la Chiesa se non l'assemblea di tutti i santi?». La comunione dei santi è precisamente la Chiesa.
«Poiché tutti i credenti formano un solo corpo, il bene degli uni è comunicato agli altri. [...] Allo stesso modo bisogna credere che esista una comunione di beni nella Chiesa. Ma il membro più importante è Cristo, poiché è il Capo. [...] Pertanto, il bene di Cristo è comunicato a tutte le membra; ciò avviene mediante i sacramenti della Chiesa».
«L'unità dello Spirito, da cui la Chiesa è animata e retta, fa sì che tutto quanto essa possiede sia comune a tutti coloro che vi appartengono».

Il termine « comunione dei santi » ha pertanto due significati, strettamente legati: «comunione alle cose sante (sancta) e  «comunione tra le persone sante (sancti)».
«Sancta sanctis! » – le cose sante ai santi – viene proclamato dal celebrante nella maggior parte delle liturgie orientali, al momento dell'elevazione dei santi. Doni, prima della distribuzione della Comunione. I fedeli (sancti) vengono nutriti del Corpo e del Sangue di Cristo (sancta) per crescere nella comunione dello Spirito Santo " e comunicarla al mondo.  (…)

In sintesi

La Chiesa è « comunione dei santi »: questa espressione designa primariamente le « cose sante » (sancta), e innanzi tutto l'Eucaristia con la quale «viene rappresentata e prodotta l'unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo».
Questo termine designa anche la comunione delle « persone sante » (sancti) nel Cristo che è «morto per tutti»,  in modo che quanto ognuno fa o soffre in e per Cristo porta frutto per tutti.

dal Catechismo della Chiesa cattolica

Libreria francescana: "Io e il Diavolo. Il romanzo di Sant'Antonio di Padova", di Rino Cammilleri


«Su questo santo era già stato detto tutto (anche se pochi lo conoscono a fondo). Così, ho deciso di fare una “autobiografia”, facendo parlare il santo in prima persona. Ed evidenziando quel che di lui nessuno conosce: la demonomachia, per esempio (le sue lotte col demonio). Di questo “santo dei miracoli” in genere si pensa che sia bravo a far ritrovare le cose perdute. Ma non si spiega perché, dopo la Madonna, è quello che ha il maggior numero di luoghi e città intitolati al suo nome. Non c’è chiesa  che non abbia una sua immagine. Nessuno conosce le sue lotte contro gli eretici catari, né il fatto che sia stato lui a convincere san Francesco a permettere lo studio ai francescani. Lo sapevate che è anche Dottore della Chiesa? Nemmeno si conosce la sua personale crociata contro l’islam. Il risultato è un libro che si legge come una fiction, perché i colpi di scena non mancano. Ma è tutto vero.» 
Rino Cammilleri

L'AUTORE
Rino Cammilleri è autore, presso i maggiori editori nazionali, di una trentina di libri, alcuni dei quali tradotti in più lingue. La sua produzione spazia dalla narrativa alla saggistica. In quest’ultimo ambito ricordiamo Gli occhi di Maria, scritto con Vittorio Messori, e, editi da Lindau, Dio è cattolico?, AntidotiDenaro e paradiso (con Ettore Gotti Tedeschi) e Come fu che divenni CCP (cattolico credente e praticante). Tiene rubriche su «Il Giornale», sul mensile «Il Timone» e sul quotidiano on-line «La nuova Bussola quotidiana». 
Il suo sito Internet è: www.rinocammilleri.com.

DATI BIBLIOGRAFICI

AUTORE: Cammilleri Rino
TITOLO: Io e il Diavolo. Il romanzo di Sant'Antonio di Padova
COLLANA: I Pellicani, pp. 224
EDITORE: LINDAU
PREZZO: euro 19,50


Libreria francescana / SE TORNASSE FRANCESCO di Carlo Bo - anticipazione del libro pubblicato dalla Castelvecchi

 La Castelvecchi ha riproposto un breve saggio di Carlo Bo, trascrizione di un suo intervento che nell’aprile del 1982 inaugurò la serie di «Il Nuovo Leopardi», trimestrale diretto da Gastone Mosci e apparso con regolarità fino al 1997. La rivista fu espressione della vivacità culturale di Urbino, la città in cui Bo (1911-2001) rivestì a lungo la carica di rettore dell’Università oggi a lui intitolata. Fra i massimi critici letterari del ’900, lo studioso fu autore di contributi capitali tra cui «Letteratura come vita» (1938), «Scandalo della speranza» (1957) e «Sulle tracce del Dio nascosto» (1984).

Tornerà san Francesco? Per ora siamo costretti a fantasticare sulla possibilità del suo ritorno, rovesciando la domanda sotto forma di ipotesi: se tornasse.
Se tornasse, se un giorno battesse alla nostra porta di carta, che lascia trapelare un’infinità di altre notizie, di altri messaggi, come ci giocherebbe, quale sarebbe il suo stupore?
Un poeta francese dimenticato ha scritto una poesia su uno di questi ritorni, sul maggiore che la nostra mente possa ipotizzare, il Cristo come fantasma, come revenant. Un viaggio scontato in cui il Cristo mascherato ritrova il mondo eternamente immerso nel lago della sua disperata solitudine, una sorta di conferma dei nostri vizi, della nostra perpetua corruzione. Sarebbe lo stesso per san Francesco e sulle macerie che da secoli cerchiamo di rimettere in piedi troverebbe qualche pezzo del libro delle sue regole, non proprio cenere così come non è cenere il Vangelo. Tutti e due però questi frammenti a testimoniare l’abbandono da parte nostra, la rinuncia all’impresa, il guanto gettato della sfida che si rivela insuperabile.
Così il Cristianesimo è stato e resta quasi sempre la più bella delle tentazioni, la più pura idea dell’uomo, ciò che vorremmo attuare e non ci riesce perché ci manca l’obbedienza, l’amore per gli altri che annulla l’amore per noi stessi, il perdono. Ne facciamo un canto, una poesia, un affresco: tutti i simboli della più alta delle nostre ambizioni, di quelle ambizioni che in partenza spegniamo nel colore indeciso, perso delle utopie. Nei migliori, nei santi, nella sterminata famiglia di chi soffre e non ha voce si è rifugiata la dura lezione francescana, in tutti gli altri a cui apparteniamo spesso tende a sfumarsi in leggenda. Nel nostro caso, nella leggenda di san Francesco.
Quando Francesco batte alle nostre porte e questo avviene molto più spesso di quanto non crediamo, noi ci limitiamo al metro dello spiraglio, facciamo entrare nelle nostre case la sua leggenda e lasciamo fuori le sue verità che sono la pazienza, il perdono, l’amore. In fondo è soltanto l’amore che le raccoglie e le riassume tutte. Perché lasciamo fuori di casa la sua verità «d’amore»?
Ma perché ne siamo incapaci, il regime di usura e di sfruttamento, la regola del do ut des, la filosofia di vita che ne consegue hanno come obiettivo primo lo spirito d’amore, quel bonum che scriviamo sulle nostre insegne e in realtà non rispettiamo.
Il bonum è soltanto nostro e facciamo di tutto per ottenerlo, migliorarlo sul piano pratico mentre non è mai – come vorrebbe san Francesco – quello degli altri. Da questo punto di vista vince puntualmente il nostro calcolo, il nostro utile, il senso delle convenienze.
San Francesco ha perso, così come sembrano fatalmente decaduti i suoi sogni di una comunità umana svincolata dalle dure leggi dell’economia, i tentativi che sono stati fatti in altri continenti e che si ispiravano alle sue più generose ambizioni appartengono alla Storia scritta ed è improbabile che possano tornare in quella da scrivere. I tempi per questo motivo non sono mai stati pronti, lo sono sempre meno, anche se nelle nostre programmazioni, nelle nostre calcolatrici, nei computer mettiamo tutti i dati necessari per risolvere questo drammatico problema della disuguaglianza.
La società industriale ha ingigantito le ragioni del contrasto sociale che al tempo di san Francesco avevano un carattere familiare, ma non dimentichiamo che in prospettiva aveva intravisto l’importanza del tema e secondo la sua natura lo aveva risolto alle radici.
Nell’ambito della «povertà» san Francesco aveva saputo distinguere il veleno che uccide il corpo di un Paese, intanto se ne era assunto la sua parte di responsabilità, per sé e per i suoi frati e dal momento in cui si è convinto di questa verità ha messo in moto la macchina della riduzione al minimo, all’essenziale e perché era santo del «sotto il minimo», dell’appena vitale, insomma della sopravvivenza. Questo significa quel suo voler chiedere per gli altri, farsi povero per le strade, alla porta della chiesa, questuando per le case e sottoponendosi all’offesa e all’insulto.
Niente dà più noia della povertà, nessuno disturba più del povero.
A distanza di molti secoli questa filosofia è stata ripresa e illustrata dal Manzoni in uno dei grandi libri della letteratura, che è ancora una storia familiare ma dove lo spirito di san Francesco è vivo nella violenza del mondo, nella coscienza della colpa, nel solenne invito al perdono che fra’ Cristoforo rivolge a Renzo. È la grande linea che riscatta una letteratura come la nostra per tanta parte incline alla dilettazione retorica, la linea che parte dal Cantico, passa per Dante e approda ai Promessi sposi.
Ma anche di questo abbiamo fatto una leggenda, qualcosa da ammirare dal di fuori senza compromettere nulla di quanto sia veramente nostro, del nostro interiore.
Tutto si risolve nei momenti più sinceri in rimorso, tutto si placa nella coscienza della nostra inadeguatezza, in una pura ispirazione verso il bene, il perdono, l’amore. Non di più; e a volte ci sembra già molto, avvoltolati come siamo nella polvere del peccato, dell’offesa a Dio che si fa sempre più sanguinosa, per cui sembra non esserci alcun limite al bisogno di vendetta e l’uomo ha imparato a bere il sangue delle vittime e a sedere al banchetto che quotidianamente viene imbandito per le maschere, le controfigure, i violentatori dell’uomo.
Questa è la risposta più infame che diamo a san Francesco, che bussa alla nostra porta, a suo modo una risposta esemplare nel senso del demonio, della grande tentazione di sovvertimento; ma ci sono le altre risposte di comodo che se sommate rappresentano un bel capitale d’inerzia di rinuncia e di rifiuto. Il diavolo non soltanto assassino, il più delle volte è un seminatore di inganni, di illusioni e pochissimi fra di noi possono sostenere di non averlo mai conosciuto. Ci ha insegnato la distrazione, l’omissione, la perfida consuetudine dell’omertà, il rovescio della lezione di san Francesco.
Ecco perché la maggior parte delle volte che viene a battere alla nostra porta facciamo finta di non sentire e non apriamo e diventiamo strumenti della sua perfetta letizia.
Noi siamo getti d’acqua congelata che gli percuotevano le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. Siamo noi a ripetere con il frate della porta che non si apre: «Vattene, non è ora decente questa di arrivare», perché di questa «decenza» abbiamo fatto l’optimum della nostra filosofia. Siamo sempre noi a ripetergli: «Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire».
È sull’idiota, sull’ignoranza che fondiamo la nostra superbia, siamo cioè noi ad essere sconfitti perché non abbiamo più il senso della pazienza e ci illudiamo di strappare la pace e la libertà con il mondo del tentatore. In tal modo lasciamo fuori della nostra porta ciò che invece dovrebbe starci più a cuore, la verità del cuore. 
Carlo Bo

Questo brano, già pubblicato sul quotidiano L'Avvenire, è stato tratto dal saggio di Carlo Bo, riproposto in questi giorni in libreria nel libro "Se tornasse Francesco", ed. Castelvecchi, pagine 64, euro 7,50. 

Roma 13 giugno 2013 - Festa di S. Antonio di Padova ... Photo Gallery 1 - In Basilica, fede e devozione



S. Antonio intercedi per me

il "toccarti" è una preghiera del cuore,
non ha bisogno di parole
ogni ora una Messa, siamo tanti, fa caldo,
mi sono confessato, a fatica seguo l'omelia,
ma quella parola mi è rimasta nel cuore ...


con questo piccolo oggetto che scelgo a ricordo ...
con questo cero che accendo ...
ti affido quel che ho nel cuore
S. Antonio, intercedi per me!





voglio essere un uomo nuovo
rafforza, o Signore, la mia Fede



LA MODERNITA' DI GIUSEPPINA BERETTONI, APOSTOLA NELLE "PERIFERIE" DI ROMA

PUBBLICATO UN NUOVO ARTICOLO SUL BLOG
DEDICATO ALLA SERVA DI DIO GIUSEPPINA BERETTONI

Nella Campagna romana sorgevano
le prime dignitose case della periferia
accanto a baraccopoli e capanne
Nei primi decenni del ‘900, la città di Roma era ancora racchiusa tra le sue mura e le sue più immediate vicinanze, ma nella campagna romana, costituita in gran parte latifondi e terre da pascolo, si stavano formando i primi nuclei abitativi, i nuovi quartieri della città. La situazione di chi abitava queste periferie era molto spesso di povertà, se non proprio miseria, degrado e abbandono. Come ancora oggi nei nuovi insediamenti, accanto alle prime dignitose case, sorgevano casupole se non baracche e ancora sopravvivevano le capanne di fango e paglia dei pastori. Acquitrini se non proprio paludi favorivano la malaria. I bambini erano spesso malnutriti. Ovunque l’igiene era scarso e diffusi i parassiti. I presidi dell’Istituto d’igiene e le Scuole rurali avranno uno sviluppo lento.  In questa realtà di periferia urgeva quella Carità che Giuseppina seppe esprimere e donare pienamente, sorretta com’era da una volontà indomita e da un Fede tenace. (continua  ... per leggere l'articolo)
E' USCITO IL NUOVO BOLLETTINO TRIMESTRALE
 
 PUO' ESSERE RICHIESTO ALL'INDIRIZZO

CENTRO GIUSEPPINA BERETTONI

presso Ordine Francescano Secolare
VIA MERULANA, 124 - 00185 - Roma


 collegamenti al  BLOG e al SITO dedicati alla Serva di Dio Giuseppina Berettoni

indicizzazione


INCONTRI PER GIOVANI FAMIGLIE - "IL DOLORE" / report dell'incontro di maggio organizzato dai Frati minori nel Convento di S. Bonaventura al Palatino






Facendo seguito al mio articolo pubblicato sul nostro giornale “Squilla” di apr-mag 2013 (n.300) riguardo l’iniziativa distribuita su cinque incontri mensili e organizzata dai frati minori del Convento di San Bonaventura al Palatino a Roma per le giovani famiglie sposate, si riporta l’incontro del 26 maggio, che ha riflettuto sul tema del “Dolore” .


 Le coppie che hanno partecipato sono state introdotte, nello stesso stile dell’incontro precedente di Aprile, nella lettura, per una preghiera che fosse anche momento di silenzio e riflessione, di vari frammenti presi dai Sacri Testi (Sapienza 8,9; Is,17-20; Giobbe 2, 13; Isaia 35, 4-10; Rom 5, 3-5; Sal 9, 35; Sal 29,11-13; Gv 16, 21-24).

Entrando nella narrazione del brano di Tobia (Tb 10, 11-12), si legge la richiesta che Tobia fa al padre di Sara, sua sposa, di poter ritornare dai suoi genitori in quanto sicuro che questi lo credono ormai morto. Dopo i tentativi da parte di Rachele nel farlo rimanere ancora a casa sua proponendogli, per tranquillizzarlo, l’invio di suoi messaggeri per informare i genitori di Tobia che il loro figlio è vivo, Tobia riesce con manifesto sentimento di apprensione, a convincerlo invece di poter ritornare con Sara alla casa paterna e materna.
Tobia dunque non nega la sensibilità che ha nel dolore pensando ai genitori che lo credono morto. Decide di lasciare la situazione di “sicurezza e prosperità” (clima festoso delle proprie nozze con Sara) ed intraprendere il viaggio verso il dolore dei genitori, che non è un suo dolore ma è un dolore di consapevolezza e di partecipazione al dolore degli altri.
Tobia questo dolore lo vive aprendosi e parlandone e si muove per alleviare il dolore dei suoi che alla fine, è il suo stesso dolore.

Il dolore dunque è una condizione dell’animo che reagisce alla perdita e alla ferita che questa produce. Il dolore della Scrittura non è affrontato come una forma privata ma lo universalizza riconoscendone le fattezze comuni ad ogni “carne”.
Il dolore come immagine di se, si pone come espressione di una ferita fisica o emotiva provocando la grande questione del valore della vita ponendosi quale voce del male e della morte.
Il carico che comporta il dolore pone numerose sfide: la difficoltà ad accettarlo, in quanto per naturale difesa si tende ad allontanarlo ma alla lunga, questo allontanamento produce un effetto terribile per chi ne cade vittima: l’isolamento.
Tale dinamica si crea per esempio nella malattia. Intorno al malato è possibile che si crei una “cortina di silenzio” e dunque, al dolore in sé il malato sperimenta il dolore per l’allontanamento di chi non è in grado di stare, di portare e condividere quel peso.

Un’altra sfida è la ricerca di una causa, di un perché che talvolta può degenerare nella ricerca di un colpevole o responsabile.
Altre ancora sono la ricerca di un fine o di uno scopo; la ricerca di un senso e significato; ricerca di un modo per portarlo; ricerca di qualcuno con cui portarlo.
Il dolore resta avvolto in un grande mistero. Servono altri strumenti per affrontarlo.
Ogni dolore, in una conoscenza approfondita di Dio, porta alla messa a fuoco che esso stesso è causato da un male responsabile. Il dolore innocente diventa sorgente di benedizione assumendo un valore enorme agli occhi di Dio.
Alla tentazione umana di evasione dal dolore Cristo invece “sta”, si ferma, prende su di sé e porta insieme. Dunque il mistero del dolore, si apre dinanzi alla logica dell’amore.
Il dolore è l’ambiente che maggiormente descrive il limite, la vulnerabilità e la piccolezza dell’uomo.
La ferita prodotta è riscattata dall’amore nelle sue diverse modalità: Amore di chi si fa prossimo, di chi assume il dolore con amore e per amore, fino al dolore estremo del e nel tradimento.
A livello psicologico, come affrontare il dolore che abita la mia casa?
Nel dolore in una coppia spesso si nasconde qualcosa che non sta andando per il verso giusto nella relazione tra noi stessi o con l’altro. Spesso il dolore in una coppia è presente quando l’altro agisce, o parla o ci tratta come un elastico che ci fionda nella nostra storia, quando per esempio 'anche mio padre mi trattava così o mia madre si rivolgeva in quel modo'.
Il punto è che di tutto questo processo poi provoca una reazione intensa della quale neanche ci accorgiamo, non ne siamo consapevoli.
Il punto spesso è che ci scegliamo proprio la persona adatta a quelle ferite. Allora l’altro, diventa il nostro maggior nemico ... che in certi casi sorge il desiderio enorme di separarsene, senza sapere che l’altro, ci sta dando invece una occasione preziosa e speciale, per accostarci a quegli aspetti irrisolti e mai chiusi dentro di noi, dento di me.
Accostandoci alle nostre ferite si ha modo di approfondirle, dandogli un nome e riportandole alla vera origine: la nostra storia personale. Questo processo, quindi, tocca la sfera personale ed è molto importante che ognuno l’affronti.

Ma come il mio partner può diventare un’oasi nel dolore dentro questo movimento minaccioso e come la relazione di coppia può diventare uno spazio di medicamento reciproco?
La prima cosa da fare è quella di incominciare a conoscere se stessi e aver chiaro “Cosa è Mio (riguarda me)” e “Cosa è Tuo (riguarda te)”. Solo chiarificando e mettendo tale distanza posso guardarmi dentro, accorgendomi di me e dell’altro per creare vicinanza.
Una vicinanza che non mi inghiotte e mi possiede ma mi custodisce e mi accompagna. Insomma, un autentico accostamento paritario dell’uno all’altro, che crea uno spazio di ascolto e condivisione nell’intimità che spesso il dolore porta.
L’altro aspetto è il Perdono e la Riparazione che portano alla Riconciliazione.
Il perdono è un atto di libertà per cui si fa un dono, un regalo all’altro per aprire di nuovo la porta della relazione dando a tutti e due una possibilità. Se l’offeso perdona , chi ha ferito ripara e in una dinamica di coppia tale gratuità può chiudere il processo che ha portato al dolore in una prospettiva, invece, di fiducia e di speranza. A volte per perdonare bisogna perdonarsi.
Pace e bene a tutti.
Marcello Capaldi, novizio