QUANDO DIO RIDE ( Sorrisi e risate nella tradizione cristiana )

Diceva San Giovanni Bosco che il diavolo ha paura della gente allegra.

Spesso i cristiani sono stati accusati di essere “ musoni “, gente priva di senso dell’umorismo, o comunque ostile pregiudizialmente all’allegria ed al divertimento, genericamente considerato peccaminoso. E’ proprio così? Il Cristianesimo è davvero la religione dei brontoloni e degli uggiosi, dei tormenti e delle lacrime, della penitenza e del dolore? Esaminando le Scritture sembra proprio che sia raccomandabile per l’uomo pio, mantenere un atteggiamento sobrio e moderato, un’allegria garbata, lontana dagli eccessi di un’ilarità senza freni.

[20] Lo stolto alza la voce mentre ride;
ma l'uomo saggio sorride appena in silenzio.  Sir.  21, 20|

Negli scritti di S. Francesco e nelle fonti viene sempre raccomandata la sobrietà :

[170] 1Beato quel religioso che non ha giocondità e letizia se non nelle santissime parole e opere del Signore 2e, mediante queste, conduce gli uomini all'amore di Dio con gaudio e letizia. 3Guai a quel religioso che si diletta in parole oziose e frivole e con esse conduce gli uomini al riso. ( Ammonizioni )

1795    Non si deve però supporre o immaginare che il nostro Padre, amante di ogni perfezione ed equilibrio, intendesse che la letizia si palesi con risa o parole oziose, poiché in tal modo non si esterna la letizia spirituale, ma piuttosto la vanità e la fatuità. Nel servo di Dio egli detestava le risa e le ciarle: non solo non voleva che ridesse, ma neppure che offrisse agli altri la minima occasione a frivolezze.
2447 In ogni momento i frati erano tra loro così ambili e gioiosi che a mala pena potevano trattenersi dal ridere quando si incontravano. Ma siccome i giovani frati di Oxford ridevano troppo spesso, fu ordinato ad uno di loro che ogni qual volta avesse riso in coro o alla mensa, altrettante volte si dovesse punire con la “disciplina”: Accadde che in solo giorno quel povero frate ricevesse la disciplina undici volte senza poter tuttavia reprimere il riso. ( Cronache ed atre testimonianze francescane ).
2458 Venne anche frate Enrico da Burford che , mentre era ancora novizio e cantore tra i frati di Parigi, compose durante la meditazione i seguenti versi contro le tentazioni che doveva combattere ;
“ Tu che sei  frate minore, non ridere mai,
perchè convengono a te soltanto le lacrime;
fa’ che al tuo nome corrisponda la tua vita. “

San Francesco in questo non sembra discostarsi molto dalle indicazioni proprie della tradizione monastica. Ciò non significa tuttavia che l’umorismo ed una sana risata siano incompatibili con una vita di fede. Egli stesso ama la giocondità e la letizia e prega i suoi fratelli di fuggire la tristezza e l’atteggiamento malinconico perché disdicevoli ad un autentico frate minore. Come al solito la virtù autentica è nel mezzo.
Guai a voi che ora ridete,
perché sarete afflitti e piangerete. Lc   6. 25|    
Se la sobrietà caratterizza la tradizione cristiana, il pregiudizio, che vuole il cristianesimo intrinsecamente ostile al riso, al comico, al gioco, allo spettacolo è in sostanza una “ leggenda nera “ montata ad arte.
Anni fa questa idea fu propagandata da Umberto Eco nel romanzo Il nome della rosa di ambientazione medievale, che ruota intorno al mistero di un libro, il secondo volume della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia e al riso, che l'ex bibliotecario Jorge da Burgos fa di tutto perché non sia letto da nessuno, arrivando a compiere numerosi delitti e a distruggere l'intera biblioteca e l'abbazia, oltre che sé stesso e il libro, in un rogo gigantesco: egli infatti condanna radicalmente il riso e ritiene che il libro aristotelico sia nefasto per la sapienza cristiana. Più di recente la stessa idea è stata trasmessa in un poderoso trattato di G. Minois, Storia del riso e della derisione (tr. it. Bari, Dedalo, 2004, pp. 799), che dedica un capitolo alla Bibbia, ai Padri della Chiesa e alla produzione monastica, intitolandolo significativamente «La demonizzazione del riso nell'Alto Medioevo. Gesù non ha mai riso» (cap. IV, pp. 123-176) e lanciandosi in affermazioni piuttosto drastiche, come: «il riso non è una caratteristica naturale del cristianesimo, religione seria per eccellenza»; «il cristianesimo ha scelto il dramma»; «Cristo non poteva che essere serio»; i cristiani «sono troppo attaccati alla loro fede per lasciare spazio all'ironia».

Ma Dio se la fa mai una risata?

Qo   3:  4 [4] C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
L’ebraismo è anche la religione del riso: Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto sa mescolarsi delicatamente al riso e al sorriso (basti ricordare Cantico dei Cantici. Un amore di gioventù in quattro parti, Adelphi, Milano 2004), non esita a dire: “L’identità ebraica è uno scoppio di risa”. Non a caso il primo ebreo per nascita ha per nome Isacco, Yizhaq, che vuol dire “colui cui Dio sorride” o “possa Dio sorridere”, dove il riferimento è al riso di Sara di fronte alla notizia che da lei bella, ma ormai non più giovane, nascerà un figlio.
 L’ebreo che ride di Moni Ovadia (Einaudi, Torino 1998) è una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo: come quando il povero Ebreo, cui è capitato veramente tutto il negativo possibile, sussurra timidamente all’Eterno queste parole: “Noi Ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma un’altra volta, non potresti scegliere qualcun altro?”
 Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso: basti a mostrarlo una figura come quella di San Francesco, “il giullare di Dio”, o una tradizione, diffusa nel Medio Evo europeo, quale quella del “risus paschalis”, che prevedeva il racconto del maggior numero possibile di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…) perché dappertutto esplodesse la gioia, solo sentimento consono alla vittoria pasquale della vita. Forse anche per questo San Filippo Neri, detto “Pippo il buono”, non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e di sorridere davanti al mondo e alla vita. San Tommaso Moro, a sua volta, Lord Cancelliere d’Inghilterra morto sul patibolo per non aver voluto cedere ai compromessi morali, alle sopraffazioni e alle lusinghe del Sovrano, non esita a pregare così: “Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da mangiare. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami un'anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre modo di rimetter le cose a posto. Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama ‘Io’. Dammi, Signore, il senso del buon umore, concedimi la grazia di scoprire un po’ di gioia e di farne partecipi gli altri”.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura deve essere umile e aperta all’Eterno, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano - teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua obiettiva limitatezza. Chi è libero da sé, e fa di quanto ha dono e servizio, sa ridere e far ridere con gioiosa scioltezza.
E qui si coglie forse una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’Islàm, religione che insiste sul dualismo fra il mondo e Dio, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: il Corano stesso è un testo scritto in cielo, sceso attraverso il profeta Maometto, proprio per questo estraneo a qualsivoglia spazio intermedio tra prossimità e lontananza. Ecco perché nell’Islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Certo, c’è l’eccezione dei “sufi”, i mistici che cercano nella parola “amore” una via per superare l’assenza del riso. Ma dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista, che giunge fino alla follia di aspettarsi di ridere fra breve in cielo mentre ci si fa saltare in aria con un mucchio di innocenti condannati a morire per niente…
Per c
Diceva San Giovanni Bosco che il diavolo ha paura della gente allegra.

Spesso i cristiani sono stati accusati di essere “ musoni “, gente priva di senso dell’umorismo, o comunque ostile pregiudizialmente all’allegria ed al divertimento, genericamente considerato peccaminoso. E’ proprio così? Il Cristianesimo è davvero la religione dei brontoloni e degli uggiosi, dei tormenti e delle lacrime, della penitenza e del dolore? Esaminando le Scritture sembra proprio che sia raccomandabile per l’uomo pio, mantenere un atteggiamento sobrio e moderato, un’allegria garbata, lontana dagli eccessi di un’ilarità senza freni.

[20] Lo stolto alza la voce mentre ride;
ma l'uomo saggio sorride appena in silenzio.  Sir.  21, 20|

Negli scritti di S. Francesco e nelle fonti viene sempre raccomandata la sobrietà :

[170] 1Beato quel religioso che non ha giocondità e letizia se non nelle santissime parole e opere del Signore 2e, mediante queste, conduce gli uomini all'amore di Dio con gaudio e letizia. 3Guai a quel religioso che si diletta in parole oziose e frivole e con esse conduce gli uomini al riso. ( Ammonizioni )

1795    Non si deve però supporre o immaginare che il nostro Padre, amante di ogni perfezione ed equilibrio, intendesse che la letizia si palesi con risa o parole oziose, poiché in tal modo non si esterna la letizia spirituale, ma piuttosto la vanità e la fatuità. Nel servo di Dio egli detestava le risa e le ciarle: non solo non voleva che ridesse, ma neppure che offrisse agli altri la minima occasione a frivolezze.
2447 In ogni momento i frati erano tra loro così ambili e gioiosi che a mala pena potevano trattenersi dal ridere quando si incontravano. Ma siccome i giovani frati di Oxford ridevano troppo spesso, fu ordinato ad uno di loro che ogni qual volta avesse riso in coro o alla mensa, altrettante volte si dovesse punire con la “disciplina”: Accadde che in solo giorno quel povero frate ricevesse la disciplina undici volte senza poter tuttavia reprimere il riso. ( Cronache ed atre testimonianze francescane ).
2458 Venne anche frate Enrico da Burford che , mentre era ancora novizio e cantore tra i frati di Parigi, compose durante la meditazione i seguenti versi contro le tentazioni che doveva combattere ;
“ Tu che sei  frate minore, non ridere mai,
perchè convengono a te soltanto le lacrime;
fa’ che al tuo nome corrisponda la tua vita. “

San Francesco in questo non sembra discostarsi molto dalle indicazioni proprie della tradizione monastica. Ciò non significa tuttavia che l’umorismo ed una sana risata siano incompatibili con una vita di fede. Egli stesso ama la giocondità e la letizia e prega i suoi fratelli di fuggire la tristezza e l’atteggiamento malinconico perché disdicevoli ad un autentico frate minore. Come al solito la virtù autentica è nel mezzo.
Guai a voi che ora ridete,
perché sarete afflitti e piangerete. Lc   6. 25|    
Se la sobrietà caratterizza la tradizione cristiana, il pregiudizio, che vuole il cristianesimo intrinsecamente ostile al riso, al comico, al gioco, allo spettacolo è in sostanza una “ leggenda nera “ montata ad arte.
Anni fa questa idea fu propagandata da Umberto Eco nel romanzo Il nome della rosa di ambientazione medievale, che ruota intorno al mistero di un libro, il secondo volume della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia e al riso, che l'ex bibliotecario Jorge da Burgos fa di tutto perché non sia letto da nessuno, arrivando a compiere numerosi delitti e a distruggere l'intera biblioteca e l'abbazia, oltre che sé stesso e il libro, in un rogo gigantesco: egli infatti condanna radicalmente il riso e ritiene che il libro aristotelico sia nefasto per la sapienza cristiana. Più di recente la stessa idea è stata trasmessa in un poderoso trattato di G. Minois, Storia del riso e della derisione (tr. it. Bari, Dedalo, 2004, pp. 799), che dedica un capitolo alla Bibbia, ai Padri della Chiesa e alla produzione monastica, intitolandolo significativamente «La demonizzazione del riso nell'Alto Medioevo. Gesù non ha mai riso» (cap. IV, pp. 123-176) e lanciandosi in affermazioni piuttosto drastiche, come: «il riso non è una caratteristica naturale del cristianesimo, religione seria per eccellenza»; «il cristianesimo ha scelto il dramma»; «Cristo non poteva che essere serio»; i cristiani «sono troppo attaccati alla loro fede per lasciare spazio all'ironia».

Ma Dio se la fa mai una risata?

Qo   3:  4 [4] C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
L’ebraismo è anche la religione del riso: Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto sa mescolarsi delicatamente al riso e al sorriso (basti ricordare Cantico dei Cantici. Un amore di gioventù in quattro parti, Adelphi, Milano 2004), non esita a dire: “L’identità ebraica è uno scoppio di risa”. Non a caso il primo ebreo per nascita ha per nome Isacco, Yizhaq, che vuol dire “colui cui Dio sorride” o “possa Dio sorridere”, dove il riferimento è al riso di Sara di fronte alla notizia che da lei bella, ma ormai non più giovane, nascerà un figlio.
 L’ebreo che ride di Moni Ovadia (Einaudi, Torino 1998) è una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo: come quando il povero Ebreo, cui è capitato veramente tutto il negativo possibile, sussurra timidamente all’Eterno queste parole: “Noi Ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma un’altra volta, non potresti scegliere qualcun altro?”
 Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso: basti a mostrarlo una figura come quella di San Francesco, “il giullare di Dio”, o una tradizione, diffusa nel Medio Evo europeo, quale quella del “risus paschalis”, che prevedeva il racconto del maggior numero possibile di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…) perché dappertutto esplodesse la gioia, solo sentimento consono alla vittoria pasquale della vita. Forse anche per questo San Filippo Neri, detto “Pippo il buono”, non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e di sorridere davanti al mondo e alla vita. San Tommaso Moro, a sua volta, Lord Cancelliere d’Inghilterra morto sul patibolo per non aver voluto cedere ai compromessi morali, alle sopraffazioni e alle lusinghe del Sovrano, non esita a pregare così: “Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da mangiare. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami un'anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre modo di rimetter le cose a posto. Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama ‘Io’. Dammi, Signore, il senso del buon umore, concedimi la grazia di scoprire un po’ di gioia e di farne partecipi gli altri”.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura deve essere umile e aperta all’Eterno, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano - teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua obiettiva limitatezza. Chi è libero da sé, e fa di quanto ha dono e servizio, sa ridere e far ridere con gioiosa scioltezza.
E qui si coglie forse una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’Islàm, religione che insiste sul dualismo fra il mondo e Dio, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: il Corano stesso è un testo scritto in cielo, sceso attraverso il profeta Maometto, proprio per questo estraneo a qualsivoglia spazio intermedio tra prossimità e lontananza. Ecco perché nell’Islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Certo, c’è l’eccezione dei “sufi”, i mistici che cercano nella parola “amore” una via per superare l’assenza del riso. Ma dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista, che giunge fino alla follia di aspettarsi di ridere fra breve in cielo mentre ci si fa saltare in aria con un mucchio di innocenti condannati a morire per niente…
Per concludere, l'impressione complessiva conferma l'abituale giudizio secondo cui gli antichi cristiani erano, o almeno affermavano di essere, più amici del pianto che del riso, ma una serie di "distinguo" attutisce il drastico impatto di questa categorica affermazione. È fuor di dubbio che fu loro del tutto estranea la comicità forte, quella che si esprime soprattutto nel teatro, e lo stesso si può dire del riso sguaiato e incontrollato. Ma è altrettanto
evidente l'apprezzamento per il sorriso, espressione di uno stato di letizia che caratterizza il fedele in pace con la sua coscienza.
È il sorriso sugli altri e il riso su noi stessi che ci aiuta, infine, ad essere umili: ce lo fanno capire molte leggende rabbiniche e qualche aforisma: come quello del saggio ebreo che scultoreamente afferma:

“L’uomo pensa, Dio ride”.
oncludere, l'impressione complessiva conferma l'abituale giudizio secondo cui gli antichi cristiani erano, o almeno affermavano di essere, più amici del pianto che del riso, ma una serie di "distinguo" attutisce il drastico impatto di questa categorica affermazione. È fuor di dubbio che fu loro del tutto estranea la comicità forte, quella che si esprime soprattutto nel teatro, e lo stesso si può dire del riso sguaiato e incontrollato. Ma è altrettanto
evidente l'apprezzamento per il sorriso, espressione di uno stato di letizia che caratterizza il fedele in pace con la sua coscienza.
È il sorriso sugli altri e il riso su noi stessi che ci aiuta, infine, ad essere umili: ce lo fanno capire molte leggende rabbiniche e qualche aforisma: come quello del saggio ebreo che scultoreamente afferma:

“L’uomo pensa, Dio ride”.
 

Festa dell'OFS di Roma ai SS. XII Apostoli



13 FEBBRAIO 2011 AI XII APOSTOLI

La prima domenica utile dopo la ricorrenza liturgica, l’OFS di Roma si riunisce nuovamente in festa, radunando anche coloro che per motivi di lavoro non possono partecipare a questa memoria presso San Francesco A Ripa.

Dopo diversi anni che questa festa s’è tenuta prima a San Lorenzo f.m., poi ai Santi Cosma e Damiano ai Fori, quest’anno la giornata si terrà presso la Fraternità dei XII Apostoli, nei pressi di piazza Venezia.

A illustrarci il programma della giornata è stato lo stesso ministro Sergio Schina che già alcuni di noi hanno potuto incontrare lo scorso mese invitati alla festa delle professioni.

PROGRAMMA:

ore 9,15 – Appuntamento c/o sala dell’Immacolata
ore 9,30 – Lodi
ore 10,00 – Primo incontro
ore 10,45 – Pauda caffè
ore 11,00 – Secondo incontro
(Come siamo chiamati noi Francescani Secolari a vivere la vita del Vangelo – con 2 domande guida per il pomeriggio)
ore 12,00 – Santa Messa celebrata dal Vescovo
ore 13,00 – Pranzo conviviale (portare qualcosa!)
ore 14,15 – Formazione dei gruppi
ore 14,30 – Riunione dei gruppi
ore 15,30 – Relazioni e conclusioni del relatore
ore 16,15 – Vespri e benedizione (in Basilica)
ore 16,45 – Saluti e congedo

info: chiedere a Guido


OGGI COMINCIO….



In che senso abbiamo ancora oggi bisogno di conversione? 
Non l’abbiamo ricevuta una volta per tutte nel battesimo? 
Dovrebbe essere una questione già chiusa e adesso dovremmo essere in cammino – naturalmente con alti e bassi, con cadute e riprese – verso la perfezione e la santità. 
Questa è effettivamente l’immagine che ci facciamo del cammino sul quale procedono tutti i cristiani. In pratica questo cammino sarebbe diviso in tre tappe: all’inizio l’incredulità e il peccato, poi il passo decisivo della conversione e infine la ricerca della perfezione. E ciascuno di noi si colloca spontaneamente – e non senza un certo candore – in un punto imprecisato della terza tappa, a un livello più o meno avanzato.


La realtà non è né così semplice né così complicata: la grazia infatti è la semplicità stessa. La difficoltà sta nel fatto che la vita nello Spirito santo non è facile da discernere. Linee di forza diverse si incrociano incessantemente e perciò la confusione, così come l’illusione, è sempre possibile: non è sempre facile distinguere queste linee le une dalle altre. In realtà il peccato, la conversione e la grazia non sono semplicemente tre tappe in successione; nella vita quotidiana a volte sono inestricabili, crescono insieme, in una reciproca dipendenza. Non mi trovo mai totalmente nell’una o nell’altra, sono incessantemente in tutte e tre nel contempo: il peccato, la conversione e la grazia sono il mio pane e la mia porzione quotidiana...

Queste tre tappe non rappresentano tre gradini di una scala di valori, non passiamo dall’una all’altra come se salissimo le scale, non sono tre galloni che cuciamo l’uno dopo l’altro sulla manica. No! Prima della morte non diciamo mai addio del tutto all’una o all’altra delle tre. Restiamo sempre peccatori, siamo continuamente in conversione e in questo siamo costantemente santificati dallo Spirito di Dio. Non possiamo mai appartenere a quella categoria di persone di cui Gesù ha detto “che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7) perché si credono giusti: in tal caso non avremmo più bisogno di Gesù. Forse saremmo ancora in cammino verso Dio, ma soli, nel senso più “solitario” del termine, irrimediabilmente soli, continuamente in preda a noi stessi, sotto un’apparenza di santità che cercheremmo invano di realizzare; ci sentiremmo sempre più profondamente frustrati perché non incontreremmo mai l’amore autentico.

È sempre illusorio credersi convertiti una volta per tutte. No, non siamo mai dei semplici peccatori, ma dei peccatori perdonati, dei peccatori-in-perdono, dei peccatori-in-conversione. Non è data un’altra santità quaggiù perché la grazia non può agire diversamente. Convertirsi significa ricominciare sempre questo rivolgimento interiore, per mezzo del quale la nostra povertà umana – quella che Paolo chiama la carne – si volta verso la grazia di Dio. Dalla legge della lettera, passa alla legge dello Spirito e della libertà, dall’ira alla grazia.
Questo ribaltamento non è mai concluso, perché non fa altro che ricominciare sempre. Antonio il Grande, patriarca e padre di tutti i monaci, lo diceva in modo lapidario: “Ogni mattina mi dico: oggi comincio”. E abba Poemen, il più famoso dei padri del deserto dopo Antonio, quando in punto di morte veniva lodato per aver vissuto una vita beata e virtuosa che lo metteva in condizione di presentarsi a Dio con estrema tranquillità, rispose: “Devo ancora cominciare, stavo appena iniziando a convertirmi”, e pianse.

La conversione infatti è sempre una questione di tempo: l’uomo ha bisogno di tempo e anche Dio vuole avere bisogno di tempo con noi. Ci faremmo un’immagine dell’uomo assolutamente errata se pensassimo che le cose importanti nella vita di un uomo possono realizzarsi immediatamente e una volta per tutte.
L’uomo è fatto in modo tale che ha bisogno di tempo per crescere, maturare e sviluppare tutte le proprie capacità
: Dio lo sa meglio di noi e per questo aspetta, non desiste, è indulgente, longanime. Dio ci aspetta come un pescatore paziente, per usare l’espressione di un poeta. “Tò chrestòn toû theoû eis metánoián se ághei”, scrive Paolo (Rm 2,4): “La bontà di Dio ti spinge alla conversione”. Non la collera ma, al contrario, “tò chrestón”, il suo affetto, la sua bontà, la sua pazienza.
Nel prologo della sua regola, Benedetto ne fa un commento pregnante: Dio è ogni giorno alla ricerca del suo operaio, e il tempo che ci dà è “ad inducias”, è una dilazione, un dono, un tempo di grazia che ci viene accordato gratuitamente. E’ un tempo che possiamo utilizzare per incontrare Dio ancora una volta, per incontrarlo sempre meglio nella sua stupenda misericordia. Sarà solo più tardi, dopo la nostra morte, che potremo vivere fuori del tempo, e per sempre.

Antonio Fasolo, ofs

bibliografia:
André Louf, Sotto la guida dello Spirito, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 1990, p. 11-13